Articoli di Giovanni Papini

1920


in "La pagina letteraria":
Discorsi col sordomuto
Pubblicato in: Parla!, anno I, fasc. 2, pp. 8-11
Data: 1 marzo 1920


pag.8


pag.9


pag.10


pag.11



   Per rispettare la santità delle case il sordomuto si fermava a tutti gli usci e alzava la mano quadra, carnosa, muovendo dito a dito per chieder misericordia. La donna della spesa passava in furia e sembrava a lei, appena venuta da' paesi senza treni, un'offesa ai campanelli d'ottone e alle porte cogli scalini e all'inferriate potenti quella giacchetta rinfrinzellata dell'uomo che voleva esser povero in quel delizioso quartiere di quasi ricchi. Dalla persiana appena scostata la signorina del piano scampanellava i riccioli della fronte e spiava con gli occhi infruscati dal chiaro del sole, e della neve che stava dimorando tra sasso e sasso. Le donne, tutte donne da quelle parti, a quell'ora, rasentavano le muraglie imbiancate e gli stipiti azzurri a passo di bersagliere chè già sentivan sonarsi negli orecchi le campane puntuali del digiunè.
   Il sordomuto si guardava intorno e guardava sè stesso e faceva due passi come se volesse tornare indietro ma la porta più vicina lo fermava di bel nuovo e un signore vecchio, tornando a casa, lo scansava tirandosi addosso il lembo del paltò: il silenzio eterno non piace a chi sente la morte appressarsi in ciabatte ma senza ritardi.
   Un gran cielo di domenica smerigliata si godeva della propria lucentezza come più lontano dalla superficie terrestre in quel momento di bilico fra il mattino e la sera. La casa cinabrese del viale stava raccolta in sè a godersi quel primo caldo; le palme fasciate di paglia nei centri dei circoli rialzati rimettevan fuori un po' del verde vivo ma vecchio che la brina mangiava ogni notte col suo morso leggero di sale gelato.
   Il sordomuto si fermò anche all'uscio della villa rossa e aspettò secondo dopo secondo quel che nessuno gli offriva neppur col pensiero. La sua solitudine spaventava il tipo normale, ravvolto nel ricordo di tanto suo parlare, che magari ripigliava a mezza voce lo spunto d'una canzonetta per dimostrare a sè stesso la possibilità di comunicare con tutti.
   Il sordomuto insisteva, la bocca un po' socchiusa, il dito un po' nero, ritto a insegnare il labbro, e l'altra mano pendente giù lunga lunga, verso il marciapiede fradicio e duro dove il passo dell'amico risonava più cauto. La condanna del silenzio in quella mattinata di risveglio salubre e scricchiolante; gli uccelli che beccavano tra la neve di carraia in carraia, tra le palle pagliose e umide de' cavalli; la necessità di sorridere dopo tanta oppressione d'acqua, di vento e di sudicio — ogni particola del mondo, ogni suono era contrario a quella mutezza vagabonda e pertinace.
   Io passeggiavo da quelle parti in cerca di malinconie realizzabili, di brillantezze tutte interne, di ricordi appropriati a ringiovanirmi. Ho seguito il sordomuto, l'ho avuto vicino a me una volta, due volte, mi sono spogliato per lui d'ogni capacità di terrore.
   A pensarci, a riempirsi della sua vita, a fissare il suo occhio che sembra cieco da quanto è scompagnato dalla parola, avrei sofferto più di tutti gli altri passanti che non hanno — si vede alla faccia — la mia sconosciuta delicatezza. Ho ceduto per lui, mi sono spogliato di me, ho rattenuta la repugnanza. Le parole interne che si legavano a forza come una catena di reminiscenze e d'insofferenze, le ho ringoiate giù fino a sentirmi male. Ho rinunziato al mio passo perchè non si sentisse abbandonato. Non ho voluto offenderlo con segni e gesti. L'ho preso come un santo e ho detto la preghiera senza alzare la faccia, senza tremar colle labbra all'uscita delle sillabe. Mi sono inginocchiato dinanzi a lui senza piegare i ginocchi. L'ho amato senza stringerlo al petto.
   I due occhi cogli altri due occhi hanno parlato. La sola lingua che non poteva offenderlo ho adoprato con lui che altre non ne sapeva. Mi disse il sordomuto guardandomi:
   — Io chiedo e nessuno mi dà nulla. Perchè non so lamentarmi e gridare non c'è uomo o donna che mi ascolti. Il mio corpo è completo, non voglion credere alla mia fame. Se capissero il mio strazio sarebbero impotenti. Ogni soldo sarebbe nulla. Ho la bocca per ingoiare soltanto e gli orecchi non sentono i rifiuti e le usciate cattive.
   Ed io risposi guardandolo:
   — Se tu fossi cieco ogni dama di ritorno dalla messa metterebbe qualcosa nella tua palma distesa. Ogni signore sbottonerebbe il pastrano per cercare il soldo battuto o il ventino falso che danno noia e non si posson rifilare agli illuminati. Perchè le une e gli altri saprebbero che tu non li vedi e non c'è gastigo più atroce dello sguardo puntato del povero. Chi domanda colle parole ma non guarda cogli occhi ha il buon posto nel mondo. Sul portale della chiesa è rimasta la tradizione e la miseria sembra mansueta, quasi un conforto, per chi va a desinare pensando in cuor suo che le fiamme del predicatore sono evitabili. Ma chi non parla ha più eloquenza negli occhi di tutti i giudici del gran giorno. Ogni benestante ha paura di te perchè ha paura di sè stesso. Nel tuo silenzio ci sono troppe verità; la tua mano alzata è un rimprovero. La tua bocca serrata è una minaccia più terribile d'ogni esclamazione. Tu porti in giro, sotto scusa di bisogno, lo spavento di chi ha bisogno di parlare a gran voce come il fuggitivo nel buio delle campagne.
   Il sordomuto ascoltò colle pupille aperte il mio discorso e appena ebbi finito le abbassò verso la neve pestata e mi tornò in mente la certezza che nessuna morale poteva consolare quella sua sperduta disperazione. Ma s'avvicinò d'un passo e mi stese la mano grande, indurita dal freddo, per lasciare anche me e ritrovarsi più solo, più libero da riflessioni.
   Stretta la mano cercai in tasca dei pantaloni i miei soldi ma il sordomuto s'allontanò, affrettò i passi, svoltò senza voltarsi alla cantonata vicina. Dalla parte contraria mi mossi anch'io e mi sembrò di tremare e per non tremare camminai più presto e giunsi a casa coi piedi caldi ma senza voglia di nulla.
   Perchè avevo pensato a me dinanzi a lui e non avevo più dubbi su quello che fossi. Un poeta, dicerto, se poeta si chiama chi va spiluccando l'universo a grande stento di risonanze e assonanze. Ma chi più s'avvicina alla poesia più sente che resterà sempre distante a quello che la sublimità premente vorrebbe da noi; e più sa esprimersi a piacer degli altri più si persuade che ogni espressione è manchevole e mancata. Chi meglio dice tanto meno dice per sè. Chi segue troppo curioso quel che balena passa e ritorna in sè stesso più si disanima e lascia. Quanto più si vive davvero, in profondità, e più ci si ferma al momento di aprirsi. Parole comuni per viste comuni: l'equazione è perfetta. Ma chi s'apparta e vede tutto con occhi nuovi è perduto. I segni inventati dagli altri non son più niente per lui. Chiederà da bere e da mangiare ma tutto il suo spirito rimarrà un segreto per lui medesimo, chè per raccontare a sè stesso le meraviglie sarà muto anche da solo e solo. Ciascuno di noi tenta; fa cenni con segni pesi di lettere e annaspa come un abbacinato nuota nell'aria in cerca d'ombra nella piazza infinita. E la sua voce è come voce silenziosa nel sogno: nè lui nè i vicini l'avvertono. Ogni novità è ineffabile e incomunicabile.
   Ciascuno di questi uomini — fra i quali son io — è muto come il muto della strada. La poesia è un gesto di braccia, un volger d'occhi senza speranza, un incomprensibile linguaggio che ricasca giù, come la mano del povero dopo che le spalle s'allontanano rifiutando. Ognuno di noi è sordo per volontà a quel che non si potrebbe ripetere; ed è muto perchè non sa dire quel che fu tutta piena ricchezza ed ora è balbettio gemente, vergognoso della sua impotenza.
   Come te, io poeta, fui sordomuto e come te vo di porta in porta e alzo la mano e guardo negli occhi e nessuno mi ascolta e non c'è uomo che abbia misericordia per tutta la mia miseria. Da una mattina all'altra, quando c'è il sole e la neve si scioglie, traverso anch'io le strade nuove, dove uno può immaginare che il silenzio sia legge per tutti e mi consolo a dimenticare, e adoro le finestre chiuse da ferri e tendine, ed offro, ad ogni sguardo che incrocio, la mia costretta grandezza di taciturno.


◄ Indice 1920
◄ Cronologia
◄ Parla!